Chiesa di S. Ignazio


Il bussetano Pietro Pettorelli, che nel 1617 fondò il collegio dei Gesuiti, ne dispose l’ampliamento e la costruzione di una chiesa, i cui lavori terminarono nel 1862.

La facciata si coordina con quella del collegio, di ordine dorico, ma viziato dal gusto barocco del tempo. È interamente percorsa da portici, scanditi da lesene e un cornicione divide orizzontalmente il prospetto, che presenta finestre rettangolari alternate a lesene al primo piano. La parte alta della chiesa si sviluppa su un piano arretrato e un timpano tondo spezzato ne funge da facciata.

L’interno, di gusto barocco, è a navata unica con tre cappelle laterali per parte e fu interamente stuccato e decorato da Domenico Dossa e Bernardo Barca.

Gli affreschi attribuiti a Giovanni Evangelista Draghi raffigurano la gloria di S.Ignazio, di S. Luigi Gonzaga, di S. Francesco Saverio e di S. Francesco Borgia. Dello stesso autore sei dipinti a olio su tela entro cornici a stucco, sovrastanti le statue di alcuni santi gesuiti, presentano episodi di vita del fondatore dell’Ordine: la conversione di S. Ignazio nel castello di Lojola, il santo penitente a Monserrato, la sua vita ascetica di Manresa, il suo viaggio in Terrasanta, il suo apostolato e i suoi miracoli.

Quattro delle cappelle laterali sono affrescate a quadrature, forse da Giuseppe Natali, mentre le ancone lignee si devono a Vincenzo Biazzi. Tra le altre tele, in parte conservate nella chiesa collegiata di S. Bartolomeo, S. Giovanni Francesco de’ Regis di Clemente Ruta, Arrivo di S. Francesco Saverio nelle Indie di Giovanni Evangelista Draghi.

La pala dell’altare maggiore rappresenta la Gloria di S. Ignazio e si deve Pier Ilario Spolverini, copiata da Giacinto Brandi e contornata da una finta ancona rococò. I gesuiti furono espulsi dal Ducato di Parma e Piacenza da Ferdinando Borbone, con decreto del 3 febbraio 1768, convalidato dal papa Clemente XIV con bolla del 21 luglio 1773. Il collegio fu allora adibito a ospedale e ospitò anche le scuole pubbliche poi frequentate da Giuseppe Verdi.